“JOBS ACT”: COME CAMBIERÀ IL RECESSO DEL DATORE DOPO L’ENTRATA IN VIGORE DEL DECRETO ATTUATIVO.

Rovigo, 11 febbraio 2015

Circolare n. 2/2015

                                                                                ALLE DITTE

                                                                                LORO SEDI

In data 24 dicembre 2014 il Consiglio dei Ministri ha approvato, in attuazione dell’articolo 1, comma 7 della Legge 10 dicembre 2014, n. 183, lo “Schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”.

Alla data odierna il decreto deve ancora completare il proprio iter parlamentare. Tuttavia, il 12 gennaio 2015 è stata modificata e pubblicata sul sito istituzionale del Governo la versione del suddetto schema.

Fermo restando che il provvedimento entrerà in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, procediamo di seguito ad una disamina dei suoi caratteri salienti, anche e soprattutto in relazione agli innovativi profili applicativi.

La nuova disciplina in materia di licenziamento riguarda i lavoratori con qualifica di operaio, impiegato e quadro assunti con contratto a tempo indeterminato a decorrere dalla data in cui entrerà in vigore il decreto legislativo in esame.

LICENZIAMENTO DEL LAVORATORE: SFERA APPLICATIVA

Con l’approvazione delle nuove disposizioni normative contenute nella Legge n. 183/2014, è stato introdotto un nuovo regime di tutela per i casi di provvedimento espulsivo illegittimo.

L’evidente volontà di tale novella, oltre a rendere più snello il percorso di uscita del lavoratore dall’azienda, è quello di togliere quell’elemento di discrezionalità giudiziale che fino ad oggi ha caratterizzato il sistema processuale lavoristico.

La Legge n. 183/2014, per la prima volta chiarisce in maniera incontrovertibile come l’istituto della reintegrazione nel rapporto di lavoro, debba rappresentare l’eccezione ad una regola che invece è caratterizzata dall’indennizzo.

Rispetto alla disciplina di cui alla Legge n. 92/2012 (c.d. Riforma Fornero), abbiamo un testo legislativo che limita lo spazio alla discrezionalità del giudice; oggi, a differenza di quanto accadeva prima, la sussistenza del fatto materiale rende fondato il provvedimento, indipendentemente da come quel fatto venga valutato dal punto di vista giuridico. Tale ultima valutazione rimane presente ma confinata alla sfera risarcitoria non rappresentando un elemento che il giudice potrà utilizzare per giustificare la sua decisione nella direzione dell’illegittimità della scelta datoriale.

Preme evidenziare come tale nuova disciplina non sostituisca in toto la precedente (contenuta nella Legge n. 92/2012), ma piuttosto rappresenti una marcata linea di confine temporale.

Nello specifico, la nuova regolamentazione riguarderà tutti i rapporti di lavoro a tempo indeterminato costituiti a decorrere dall’entrata in vigore del decreto legislativo attuativo della delega contenuta nel “Jobs Act”, rimanendo applicabile ai rapporti in essere la disciplina prevista dalla Riforma Fornero.

Rimangono esclusi dall’applicazione della Legge n. 183/2014, oltre ai dirigenti, anche i lavoratori a tempo determinato, cui risulterà applicabile la disciplina normativa prevista dall’art. 2119 c.c. ed il connesso impianto giurisprudenziale.

In particolare, la disciplina in esame troverà applicazione in tutti i casi in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del decreto attuativo, raggiunga il limite occupazionale di applicazione dell’art. 18 della Legge n. 300/1970.

In tal caso, la nuova disciplina risulterà obbligatoriamente applicabile a tutti i profili occupazionali, indipendentemente dalla data di assunzione.

Inoltre, per tutti i casi di licenziamento oggetto della disciplina di cui all’art. 1 del decreto attuativo non troverà applicazione la disciplina di cui all’art. 7 della Legge n. 604/1966, così come modificata dalla Legge n. 92/2012, in materia di tentativo obbligatorio di conciliazione presso le Direzioni Territoriali del Lavoro (DTL).

Il nuovo regime risulta applicabile a tutti i neoassunti, profilandosi come possibile la coesistenza tra il nuovo ed il vecchio regime. Un esempio è rappresentato dai soggetti con due contratti di lavoro part-time, uno stipulato prima ed uno stipulato dopo l’entrata in vigore della Legge n. 183/2014. In tal caso, al primo contratto si applicherà la disciplina reintegratoria ed al secondo quella indennitaria.

Computo dell’anzianità ai fini dell’indennità

La nuova disciplina prevista dal “Jobs Act” intende limitare al minimo la discrezionalità del giudice e, conseguentemente, la variabilità dell’aspetto risarcitorio in caso di licenziamenti illegittimi. Di conseguenza, tutti gli indennizzi economici riconosciuti al lavoratore risultano parametrati all’anzianità di servizio dello stesso.

A riguardo, posto che l’anzianità di servizio deve considerare anche le frazioni di anno, queste ultime saranno equiparate a un mese intero se l’attività lavorativa è stata svolta per un periodo pari o superiore a quindici giorni.

Per quanto attiene i contratti di appalto, l’anzianità di servizio del lavoratore che passa alle dipendenze dell’impresa che subentra nell’appalto, si computa considerando tutto il periodo durante il quale il lavoratore è stato impiegato nell’attività appaltata.

LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO, NULLO E INTIMATO IN FORMA ORALE

Le fattispecie di licenziamento discriminatorio, nullo ed intimato in forma orale, rimangono le uniche ancora presidiate dall’istituto della reintegrazione.

Nello specifico, in tutti i casi in cui il provvedimento espulsivo comminato al prestatore risulti viziato:

 per violazione delle disposizioni in materia di non discriminazione ex art. 3, Legge n. 108/1990, nonché

 per matrimonio,

 per gravidanza fino al termine del periodo di interdizione,

 per fruizione dei congedi parentali,

 per motivo illecito ex art. 1345 c.c., o ancora,

 perché intimato in forma orale,

lo stesso prevederà l’obbligo per il datore di lavoro di provvedere alla reintegrazione del lavoratore ed al riconoscimento di un’indennità pari alle mensilità di retribuzione maturate dalla data del licenziamento e fino alla data della ripresa lavorativa, dedotto quanto eventualmente percepito per lo svolgimento di altra attività e comprensivo del versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.

Tale considerazione merita un necessario chiarimento poiché, se da un lato è pur vero che la nuova disciplina non fa esplicito riferimento all’art. 18 della Legge n. 300/1970, l’art. 2, comma 1, del Decreto attuativo utilizza la formula “(…) ovvero riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge (…)”.

Risulta chiaro come, essendo la Legge n. 300/1970 norma vigente, l’art. 18 della stessa risulta indicare i casi “espressamente previsti dalla legge”. Tale locuzione inserita nello schema di decreto attuativo risulta quindi essere una tecnica di scelta legislativa e di opportunità, la quale richiama il contenuto dell’art. 18, comma 1, senza citarlo.

Tale tecnica si ritiene trovi il suo fondamento nella volontà di evitare ogni riferimento ad una disciplina che con il decorrere del tempo andrà a scomparire. La misura del risarcimento non potrà comunque essere inferiore ad un minimo di 5 mensilità di retribuzione.

Si sottolinea come in tale tipologia di illegittimità del provvedimento espulsivo, la disciplina che risulterà applicabile sarà la medesima di cui alla previsione della Legge Fornero. Quindi, in tale unico caso, non si ravviseranno differenze per i lavoratori assunti nel periodo di vigenza della Legge n. 92/2012 o della Legge n. 183/2014, né tantomeno in funzione dei limiti dimensionali dell’azienda. Allo stesso modo non risulteranno esclusi da tale disciplina i lavoratori con qualifica di dirigente.

Dal testo dello schema di decreto legislativo, tale normativa risulta applicabile anche ai casi di licenziamento collettivo di cui agli artt. 4 e 24 della Legge n. 223/1991, qualora gli stessi risultino intimati senza l’osservanza della forma scritta.

Opting out unilaterale

In materia di opting out unilaterale, ossia la scelta del lavoratore di trasformare la reintegra nel posto di lavoro in un’indennità economica, la disciplina normativa prevede la necessità che la richiesta da parte del prestatore intervenga entro 30 giorni dalla comunicazione di deposito della pronuncia giudiziale o dell’invito del datore a riprendere l’attività.

Con l’introduzione della Legge n. 183 del 10 dicembre 2014, il Legislatore ha previsto la possibilità, per il lavoratore, di sostituire la reintegrazione con una somma a titolo indennitario pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione percepita e non soggetta a contribuzione previdenziale.

Mentre secondo la disciplina previgente il rapporto di lavoro si considerava estinto nel momento in cui interveniva il pagamento dell’indennità, con la disciplina prevista dal Jobs Act, lo stesso si estingue al momento della richiesta del lavoratore. L’effetto è chiaro: un tardivo pagamento, oggi, rappresenterà un credito del lavoratore ma non la prosecuzione del rapporto con l’azienda.

 LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO, GIUSTA CAUSA E LICENZIAMENTO “ECONOMICO”

In materia di licenziamento per giustificato motivo e giusta causa, l’art. 3 dello schema di decreto attuativo, propone un’importante distinzione.

Qualora il provvedimento espulsivo risulti assistito dalla presenza del fatto materiale, lo stesso non potrà essere sanzionato con la reintegrazione nel posto di lavoro, mentre in assenza di fatto materiale sussisterà l’obbligo in parola.

In presenza del fatto materiale ed indipendentemente dalla sua gravità, il licenziamento non potrà comportare la reintegrazione, potendo essere eventualmente assistito da un indennizzo.

Alla luce dell’impostazione, emerge con forza la centralità del fatto materiale rispetto all’intera gestione del provvedimento espulsivo. Nello specifico la sua assenza diviene lo spartiacque tra l’istituto della reintegra e quello dell’indennizzo. In definitiva, in presenza del primo, ed in caso di giudizio, l’eventuale valutazione in merito alla sproporzione del provvedimento, rispetto all’evento scaturente, non prevederà più il ristoro per mezzo della reintegrazione ma l’intervento di un istituto indennitario con quantificazione certa e privo di contribuzione previdenziale.

Pur rimanendo al momento ancora il dubbio in merito alla possibilità di non assoggettamento a ritenute fiscali del quantum indennitario, emerge chiaramente come la novella abbia il chiaro intento di fornire alle aziende la possibilità di sapere con certezza gli eventuali costi per il recesso illegittimo, bilanciandone gli effetti e garantendo al prestatore espulso una somma di denaro tanto più alta quanto più lunga è risultata la sua presenza in azienda.

In tema di giustificato motivo e di giusta causa vi è una profonda innovazione delle disposizioni previgenti. In particolare, si introduce “a monte” il concetto di estinzione del rapporto, escludendo di conseguenza l’istituto della reintegra. A fronte della summenzionata estinzione, la nuova disciplina contenuta nel “Jobs Act” prevede il riconoscimento al prestatore di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio prestato.

Indipendentemente dall’anzianità di servizio del lavoratore, tale indennità non potrà mai essere inferiore a 4 mensilità e superiore a 24.

Qualora il licenziamento per giustificato motivo, giusta causa o per motivo economico sia comminato senza dimostrare la sussistenza del fatto materiale contestato o per difetto di giustificazione consistente nell’inidoneità fisica o psichica, al lavoratore sarà riconosciuto il diritto alla reintegrazione nelle medesime modalità previste per il licenziamento nullo, con il limite di un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Più precisamente, a differenza di quanto previsto per il caso di nullità, la somma riconosciuta al lavoratore a titolo risarcitorio risulterà decurtata di quanto lo stesso avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. c, del Decreto Legislativo n. 181/2000.

In tale caso rimane facoltà del lavoratore scegliere il trattamento previsto dall’art. 2, comma 3, del decreto attuativo in esame (indennità pari a 15 mensilità in sostituzione della reintegra).

Preme evidenziare come, a fronte di un’analisi letterale di quanto espresso nell’art. 3, comma 2, dello schema di decreto, l’insussistenza del fatto materiale posto a base del provvedimento espulsivo dovrà essere dimostrata in giudizio. Ciò significa che non sarà più il datore di lavoro a dover dimostrare la sussistenza del fatto, quanto il lavoratore ad essere gravato dell’onere di provarne l’assenza.

La suddetta regolamentazione risulta applicabile anche ai casi di violazione delle procedure richiamate dall’art. 4, comma 12, o dei criteri di scelta previsti dall’art. 5, comma 1, della Legge n. 223/1991.

LICENZIAMENTO CARATTERIZZATO DA VIZI FORMALI E PROCEDURALI

Per le fattispecie di licenziamento caratterizzate dalla violazione dell’obbligo di motivazione, l’art. 2, comma 2, della Legge n. 604/1966, così come modificato dalla Legge n. 92/2012, esplicitamente dispone:

“La comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato.”

Per i casi di violazione della procedura prevista dall’art. 7 della Legge n. 300/1970,

l’articolo di cui sopra esplicitamente dispone:

“1. Le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo Accessibile a tutti. Esse devono applicare quanto in materia è stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano.

  1. Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa.
  2. Il lavoratore potrà farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato.
  3. Fermo restando quanto disposto dalla legge 15 luglio 1966, n. 604 non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro; inoltre la multa non può essere disposta per un importo superiore a quattro ore della retribuzione base e la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per più di dieci giorni.
  4. In ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa.
  5. Salvo analoghe procedure previste dai contratti collettivi di lavoro e ferma restando la facoltà di adire l’autorità giudiziaria, il lavoratore al quale sia stata applicata una sanzione disciplinare può promuovere, nei venti giorni successivi, anche per mezzo dell’associazione alla quale sia iscritto ovvero conferisca mandato, la costituzione, tramite l’ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, di un collegio di conciliazione ed arbitrato, composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro scelto di comune accordo o, in difetto di accordo, nominato dal direttore dell’ufficio del lavoro. La sanzione disciplinare resta sospesa fino alla

pronuncia da parte del collegio.

  1. Qualora il datore di lavoro non provveda, entro dieci giorni dall‘invito rivoltogli dall’ufficio del lavoro, a nominare il proprio rappresentante in seno al collegio di cui al comma precedente, la sanzione disciplinare non ha effetto. Se il datore di lavoro adisce l’autorità giudiziaria, la sanzione disciplinare resta sospesa fino alla definizione del giudizio.
  2. Non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi

due anni dalla loro applicazione.”

L’art. 4 dello schema di Decreto legislativo in esame, prevede che, a fronte della dichiarazione di estinzione del rapporto di lavoro alla data del licenziamento, il datore di lavoro è tenuto al pagamento in favore del prestatore di un’indennità pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio e comunque compresa tra un minimo di 2 e un massimo di 12 mensilità.

Fermo restando che la suddetta somma non risulterà assoggettata a contribuzione previdenziale, il giudice potrà riconoscere, su istanza del lavoratore, l’applicazione della disciplina prevista dagli artt. 2 e 3 dello schema di decreto, ove sussistano le necessarie condizioni.

REVOCA DEL LICENZIAMENTO

Fermo restando che in materia di revoca del licenziamento l’art. 5 dello schema di decreto attuativo non rappresenta un’innovazione, rispetto a quanto già stabilito dall’art. 18, comma 10, della Legge n. 300/1970 così come modificato dalla Legge n. 92/2012, lo stesso prevede la possibilità per il datore di lavoro di far cadere nel nulla il provvedimento espulsivo, con l’effetto che risulterà come mai comminato. Al fine dell’operatività di tale scelta, sarà necessario che la revoca intervenga successivamente alla comminatoria del licenziamento ma entro e non oltre 15 giorni dalla data di comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione da parte del prestatore.

In caso di revoca il lavoratore riprenderà l’attività lavorativa come se la stessa non si fosse mai interrotta e il datore di lavoro sarà tenuto al versamento della retribuzione piena per il periodo precedente la revoca stessa, senza alcuna sanzione aggiuntiva.

OFFERTA DI CONCILIAZIONE

Lo schema di decreto attuativo, all’art. 6, regola la possibilità per le parti, in tutti i casi di licenziamento che ricadano nel campo di applicazione della nuova disciplina normativa (operai, impiegati e quadri), di evitare il ricorso alla via giudiziale, optando per quella stragiudiziale conciliativa.

Nello specifico, è data facoltà al lavoratore, assunto successivamente all’entrata in vigore della disciplina prevista dal “Jobs Act”, di attivare tale procedura davanti alle sedi abilitate a convalidare le rinunce e le transazioni in materia di lavoro, ossia le Direzioni Territoriali del Lavoro, le sedi sindacali e le commissioni di certificazione.

Si sottolinea come tale facoltà rimanga esperibile solo ed esclusivamente fino a quando non sia scaduto il termine per impugnare in via stragiudiziale il licenziamento (60 giorni).

In caso di ricorso alla conciliazione, al lavoratore sarà riconosciuta una somma pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio con un limite minimo di 2 mensilità ed uno massimo di 18.

Preme evidenziare come l’accettazione da parte del prestatore di lavoro dell’offerta conciliativa:

 potrà essere perfezionata solo in caso di dazione da parte del datore di lavoro della somma prevista a mezzo di assegno circolare;

 comporterà automaticamente l’impossibilità per il lavoratore di procedere giudizialmente nei confronti del datore di lavoro in merito all’illegittimità del provvedimento espulsivo.

Alla luce di quanto fin qui chiarito, si evidenzia come la preclusione per il lavoratore di

procedere giudizialmente dovrà considerarsi circoscritta al licenziamento, lasciando sempre libera la procedibilità relativamente a mancate retribuzioni e, più in generale, a violazioni legate allo svolgimento del rapporto di lavoro precedenti alla conclusione dello stesso. Tale ultima considerazione si ritiene, tuttavia, non escludere la possibilità di conciliare anche aspetti diversi dal provvedimento espulsivo nel medesimo verbale, ferma restando la necessità di tenere ben distinti i diversi oggetti dell’accordo e le somme corrisposte.

Criticità

Rispetto al neo introdotto istituto dell’offerta di conciliazione, alla luce della disciplina normativa di cui allo schema di decreto attuativo, sono previsti tre requisiti:

 60 giorni dalla data del licenziamento;

 accordo innanzi una delle sedi assistite ex art. 2113, comma 4, cc;

 dazione della somma mediante assegno circolare.

Si ritiene che i suesposti requisiti, benché esplicitati all’art. 6 dello schema di decreto attuativo, possano racchiudere al loro interno delle modalità alternative che non modifichino la “ratio” voluta dal legislatore. Ciò, da un lato perché vi sono evidenti strumenti alternativi che permettono di fornire le somme al lavoratore in tempi più celeri, dall’altro perché la stessa norma prevede testualmente:

(…) e ferma restando la possibilità per le parti di addivenire ad ogni altra modalità di conciliazione prevista dalla legge (…)

IL SISTEMA TRIPARTITO DI CONCILIAZIONE

Come illustrato, l’istituto della conciliazione è stato modificato con l’introduzione del “Jobs Act” e, quindi, lo stesso è divenuto uno strumento volto a concludere, prima del percorso giudiziale, l’eventuale contestazione relativa all’illegittimità del licenziamento. Tale previsione ha come chiaro fine la deflazione del contenzioso, posto che per la prima volta si prefigge l’obiettivo di garantire un indennizzo economico a favore del lavoratore che si avvicina a quello che riceverebbe all’esito del giudizio.

Preme in conclusione evidenziare come, da un lato, in ragione del regime differenziato di applicazione delle disposizioni relative al “Jobs Act” (c.d. “doppio binario”) e, dall’altro, in ragione dell’istituto conciliativo volontario previsto dalla Legge n. 183/2010), ad oggi l’ordinamento vede coesistere tre diverse tipologie di conciliazione:

 conciliazione obbligatoria;

 conciliazione volontaria;

opting out unilaterale.

Cordiali saluti.

 

                                                                                Massimo GUIDETTI

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